Il nocchiero di una nave in tempesta (363-365) - Ep. 11 (1)
Salute e Salve! E benvenuti alla Storia d'Italia. Come sapete ogni tanto rilascio i testi degli episodi del podcast. Eccone un'altro! Nota bene: l'episodio 10 era un episodio speciale senza testo, si trattava dell'intervista a Luigi Gaudio.
Nello scorso episodio della narrazione principale abbiamo visto Giuliano marciare verso il cuore dell'impero dell'Asia, l'Iran dei Re dei Re. Una campagna militare iniziata sotto i migliori auspici si è tramutata in una estenuante marcia di ritorno verso le terre controllate dai romani, mentre la fame inizia a tormentare l'esercito. Shapur ha dato ordine di attaccare più volte i Romani e in uno di questi scontri Giuliano è andato incontro al suo destino lasciando il suo esercito privo della sua rispettata e amata guida. Quello che sembrava il destino dell'Apostata – conquistare l'impero persiano – si è rivelato un fuoco fatuo. Ora è arrivato il momento di prendere delle decisioni: qualcuno dovrà guidare l'esercito fuori dal deserto e verso la salvezza. E qualcuno proverà a farlo.
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“Dopo la morte di Giuliano non ci fu tempo né per i lamenti né per il pianto. La salma fu curata come permettevano i mezzi e le circostanza. Al sorgere del giorno successivo, il 27 Giugno, mentre eravamo circondati d'ogni parte dai nemici, si raccolsero i comandanti dell'esercito e, convocati pure i capi delle legioni e dei reparti di cavalleria, si consultarono sulla nomina di un nuovo imperatore.”
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Così inizia la narrazione di Ammiano dopo la morte del suo amato imperatore. Ammiano era probabilmente lì, nell'assemblea, ad ascoltare le deliberazioni. Nell'esercito prevalsero due fazioni sin da subito: da una parte gli ex alti ufficiali di Costanzo II, con le radici nell'oriente e di tendenza cristiana, dall'altra gli alti ufficiali gallici – Nevitta e Dagalaifo tra tutti. Come si evince dai nomi erano di origine germanica o gallica ed entrambi erano pagani come l'imperatore defunto. Da subito possiamo notare come ancora una parte importante dell'alto comando romano fosse cristiano: Giuliano era convintamente pagano ma non aveva epurato i generali cristiani, anteponendo l'abilità all'ideologia. Va detto che le fortune in guerra, per i superstiziosi romani, erano un segno di collera o favore divino e questa incrollabile certezza di poter misurare l'umore divino accomunava cristiani e politeisti. Quindi la caduta dell'imperatore pagano fu interpretata da subito come un segno di sfavore divino. Questo ridiede vita alla fazione cristiana dell'esercito, probabilmente senza che perfino una parola a riguardo fosse detta.
Le due fazioni comunque non riuscivano ad accordarsi su un nome, nonostante la situazione drammatica: l'indomani probabilmente Shapur avrebbe attaccato di nuovo e tutti erano dell'opinione che per allora sarebbe stato indispensabile avere una guida certa. A questo punto nel racconto Ammiano riporta che un “anonimo” tra di loro li redarguì dicendo “Che cosa fareste se l'imperatore fosse assente, come spesso è accaduto, e vi avesse affidato il compito di portare a termine questa guerra? messo da parte ogni altro pensiero, non salvereste i soldati dai pericoli che li minacciano? Comportatevi così ora e, se riuscirete a rivedere la Mesopotamia, i voti di entrambi gli eserciti uniti eleggeranno il legittimo sovrano”. L'ufficiale sosteneva che fosse inutile eleggere in questo momento un nuovo imperatore, nella fretta e senza i voti dell'esercito di Procopio: essere separati dall'imperatore non era una cosa straordinaria, avrebbero dovuto seguire gli ordini e tornare in territorio Romano. Lì, riuniti con l'esercito di Procopio, avrebbero eletto un nuovo imperatore con calma e raziocinio.
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Ma chi era questo ufficiale? Il grande storico Gibbon sostiene che non si tratti di nessun altro che il nostro Ammiano Marcellino in persona, che riportò su carta la sua stessa opinione: non è ovviamente provato, ma pensavo fosse un dettaglio interessante. Vorrei inoltre portare la vostra attenzione sul dettaglio importante della ”elezione”. Vi potreste chiedere cosa c'entri un'elezione con una carica monarchica come quella dell'Imperatore, anche se si tratta di una elezione limitata ai soli ufficiali dell'esercito. Credo che oramai sia chiaro come il mestiere di imperatore fosse una sorta di magistratura monarchica: l'eredità repubblicana di Roma impediva ancora a secoli di distanza dalla nascita dell'impero di percepire l'ufficio di Imperatore come una monarchia ereditaria. Certo, essere un parente prossimo dell'imperatore aiutava, ma alla fin fine l'imperatore era il comandante supremo dell'esercito e l'esercito si arrogava il diritto ultimo di confermare o meno un imperatore e, in casi estremi come questo, di eleggerlo infischiandosene del grado di parentela, criterio che sarebbe stato il più importante nell'Europa medioevale e del primo evo moderno.
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L'aula Palatina, a Trier (Treviri). Un tempo adorna di marmi questa è l'unica sala del trono tardo imperiale ad essere giunta ai giorni nostri. Costantino, Giuliano, Valentiniano, Graziano fecero tutti corte in questa stupenda sala.
Sta di fatto che Ammiano – se davvero si trattò di lui – non fu ascoltato. La scelta degli ufficiali cadde su Gioviano, il comandante dei protectores domestici, la guardia del corpo imperiale e che aveva sostituito i disciolti pretoriani. Gioviano era il figlio di un Comes o comandante provinciale, un militare molto rispettato e che si era dimesso: Marcellino dice un po' velenosamente che Gioviano godeva di modesta fama per meriti paterni. Credo che gli fu affidata la corona imperiale un po' nella speranza che la mela non fosse caduta troppo lontano dall'albero. Gioviano era giovane, aveva la stessa età di Giuliano, 32 anni. Marcellino sostiene che non si possa accusare troppo i soldati per la loro scelta: come una nave in tempesta che abbia perso il nocchiero, i marinai si affidarono al primo di passaggio pur di salvare la loro pelle.
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Quando Gioviano uscì dalla tenda i soldati iniziarono ad acclamare il nuovo imperatore, chi era lontano pensò che tanto fracasso fosse dovuto al fatto che Giuliano si fosse ripreso dalla malattia ma quando videro un uomo alto, mentre Giuliano era piuttosto basso, molti si abbandonarono al pianto: la morte dell'imperatore non era ancora infatti di dominio pubblico. Un uomo in particolare, un nemico di famiglia di Gioviano e suo padre, decise che fosse arrivato il tempo di togliersi di mezzo se voleva salva la vita e defezionò verso Shapur, raccontando della morte di Giuliano e dell'elezione di un signor nessuno. Credo che Shapur non poté credere alla sua buona sorte. Ecco l'occasione di trasformare una mezza sconfitta in una grande vittoria. Diede immediatamente mandato di rinnovare gli attacchi ai Romani, mentre questi continuavano la loro faticosissima ritirata. Elefanti attaccarono le linee romane, frecce sibilarono sulle loro teste mentre il sole li disidratava e la fame li tormentava. L'esercito si accampò quella notte e le seguenti senza avere possibilità di riposarsi, visto che le frecce cadevano anche di notte e la cavalleria persiana testava in continuo le difese.
Il 1° Luglio, dopo giorni di questa terribile ritirata, l'esercito arrivo a Dura, sempre sul Tigri. Qui i soldati si fermarono, incapace di andare oltre. Ogni volta che Gioviano dava l'ordine di ricominciare la marcia i persiani tormentavano così tanto gli esausti e affamati romani che questi desistevano. I territori romani non erano oramai lontani verso nord, ma ahimè si trovavano sull'altro lato del Tigri e la sfortuna volle che il fiume fosse in piena e quindi praticamente non attraversabile: a questo punto sarebbe risultata comoda una flotta di mille navi e fu oramai a tutti chiaro che follia fosse stata bruciare il loro salvacondotto per tornare in patria. C'era un intenso clamoreggiare da parte dei soldati che volevano tentare comunque la traversata ma Gioviano li implorava di non andare e di restare assieme: buona parte dell'esercito non sapeva nuotare e i persiani avevano uomini anche sulla sponda occidentale: è duro però per un uomo che sa nuotare sacrificare la propria salvezza per quella degli altri, soprattutto se a chiederlo non è un comandante rispettato ma un signor nessuno vestito di porpora. I soldati minacciarono di ricorrere alla violenza e alla fine a un certo numero di essi fu permesso di attraversare nottetempo. Questi uccisero i persiani e fecero segno all'esercito che avevano avuto successo. A questo punto altri avrebbero voluto passare ma Gioviano e gli altri ufficiali garantirono che sarebbe stato presto costruito un ponte. Credo sapessero bene che con quella piena fosse un'opera impossibile, ma per trattare con Shapur avevano bisogno di tenere intero l'esercito.
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Shapur a questo punto decise di non testare i limiti della sua fortuna: aveva trasformato un mezzo disastro in una situazione di forza grazie alla sua abile guerriglia e ad una armatura non indossata. Sapeva bene però che Roma aveva risorse ingenti da gettargli contro, se avesse voluto. Avrebbe potuto forse schiacciare questo esercito, costringerlo alla fame. Ma un nuovo imperatore sarebbe venuto nel giro di pochi anni a bussare alle sue porte. Era arrivato il momento di lasciare il tavolo della roulette e passare all'incasso.
Ambasciatori raggiunsero Gioviano e gli altri ufficiali: invitando i romani a trattare. Gioviano non volle credere alla sua fortuna: i viveri erano appena finiti, dopo il vano tentativo di vedere se il fiume si sarebbe calmato a sufficienza da costruire un ponte. La fame oramai serpeggiava nell'accampamento. Le trattative iniziarono immediatamente ma Shapur fece in modo che tirassero il più possibile per le lunghe e tenne i romani alla fame per 4 interminabili giorni, in modo che non avessero il tempo o la forza di tentare qualunque altra soluzione che non fosse l'accordo che andava preparando. Ammiano critica la scelta di Gioviano di restare fermo a Dura: mancavano solo 100 miglia alle terre controllate dai romani, 3-4 giorni in teoria sarebbero stati sufficienti per raggiungerle e poi negoziare da una posizione di maggiore forza, senza la minaccia della morte per fame.
Le condizioni del re furono dure, ma non durissime a prima vista: i romani avrebbero dovuto abbandonare cinque province d'oltre Eufrate: praticamente il grosso della Mesopotamia settentrionale. Queste erano le terre che Diocleziano aveva sottratto ai persiani e il Re dei Re le rivoleva indietro. Può sembrare una condizione tutto sommato leggera ma all'interno del territorio che il Re richiedeva c'erano Singara e soprattutto Nisibis, la città che Shapur non era riuscito a conquistare in decenni di guerra e che costituita la chiave di volta della difesa romana in oriente, essendo a guardia dell'unico stretto passaggio tra monti e deserto che permetteva ai persiani di muovere verso la Siria e l'intero oriente romano. Ma non è tutto: Shapur chiedeva anche ai Romani di astenersi da qualunque intervento politico in Armenia e da portare aiuto ad Arshak in caso di guerra con i Persiani. Era facile capire cosa questo volesse dire: Shapur intendeva attaccare Arshak, come poi avvenne, e portare l'intera Armenia sotto il controllo dei persiani.
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Le richieste furono considerate oltraggiose da una parte dei Romani, che non avevano ceduto neanche un francobollo di territorio ai persiani anche a seguito di dure sconfitte. Altri, probabilmente la fazione cristiana, sottolineavano a Gioviano che c'era un altro comandante a nord, il pagano Procopio, per giunta con una parentela con la dinastia costantiniana e quindi ben più legittimità a governare. Fu fatto presente a Gioviano che in qualunque momento sarebbe potuto arrivare Procopio e questi avrebbe potuto compiere un colpo di mano se l'esercito al comando di Gioviano fosse rimasto nelle attuali miserevoli condizioni. Occorreva chiudere la pace e alla fine Gioviano firmò.
I Romani avevano un dio, Terminus, il dio dei confini. Terminus permetteva ai confini romani di espandersi, ma mai di contrarsi. Ora nel 363 questa era comunque una finzione: i Romani avevano abbandonato in precedenza territori conquistati. Innanzitutto sotto Adriano, che aveva ceduto Armenia e Mesopotamia ai Parti in cambio della pace. Durante la crisi del terzo secolo i territori tra il Reno e il Danubio erano stati abbandonati perché indifendibili e poi Aureliano aveva evacuato la Dacia, in modo da riportare il confine imperiale sul Danubio. In ognuno di questi casi però era stata una cessione volontaria di terre, mai di un trattato di cessione con una potenza straniera a seguito di una sconfitta: Roma in caso di sconfitta non cedeva territori, inviava nuove armate fino alla vittoria finale: era quello che era avvenuto innumerevoli volte. Roma alla fine doveva trionfare. Inoltre la propaganda imperiale in ogni accordo con i barbari sosteneva che questi erano arrivati supplicando per la pace e l'imperatore, mosso a compassione, li aveva risparmiati. Roma non concepiva i rapporti tra stati come quelli tra stati moderni europei: i rapporti dovevano essere gerarchici, in vetta essendoci l'impero universale dei romani, destinato a perenne espansione.